Il lato in ombra della cittadinanza
Maria Grazia Campari

 


In un seminario su “Tutte le strade portano al Reddito” mi interessa menzionare questo aspetto: l’istituto, per me pregevole, è importante anche quale possibile agente provocatore di conflittualità ampia, intergenerazionale e intergenere, in un paese, l’Italia, che appare rassegnato a subire in silenzio le prepotenze del capitalismo contemporaneo. Forse anche per questa piatta accettazione la nostra democrazia sembra più in sofferenza che non quella di altri Stati europei.
Non sembra casuale che la scarsa tenuta delle istituzioni si verifichi in un paese segnato da una forma particolarmente invasiva di maschilismo patriarcale, ampiamente supportato dalla gerarchia cattolica.
Le nostre istituzioni sono state tradizionalmente occupate da una classe dirigente affollata da forze reazionarie, salvo brevi periodi in cui ristrette élites culturali, agevolate da circostanze eccezionali (guerra perduta, resistenza, movimento internazionale degli anni sessanta del Novecento) hanno potuto temporaneamente dettare l’agenda politica.
Le leggi di attuazione costituzionale sono state devastate dagli anni ottanta del secolo scorso e ai giorni se ne è perfezionata la distruzione.
La falsa alternativa Berlusconi-Monti suggerisce il suicidio della forma democratica per la qualità del governo della cosa pubblica (quindi della vita di ognuno) tutto orientato alla distruzione dei diritti sociali e civili che connotano le democrazie liberali, una situazione che esibisce assetti tardo medioevali fatti di potentati e di vassallaggi.
Due esempi recenti lo rendono manifesto.
Il primo è l’atteggiamento fortemente critico tenuto dal governo e dalle forze politiche di maggioranza nei confronti del magistrato che ha tentato di far rispettare le leggi a tutela della salute collettiva (bene costituzionalmente protetto) nel caso ILVA di Taranto, accusandolo addirittura di mettere a rischio il sistema produttivo italiano.
Il secondo è la dichiarata opposizione governativa, per suggerimento ecclesiastico, nei confronti della recente sentenza della Corte europea di Strasburgo che demolisce il divieto di diagnosi pre-impianto, a tutela della salute del nascituro, nei casi di malattia geneticamente trasmissibile (e in contrasto con le previsioni della l. 40/2004).
Come è stato detto, un governo ligio alle disposizioni europee nei casi di distruzione dei diritti sociali e disposto, però, a contrastarne il rispetto dei diritti civili di libertà. 
Ci governa una destra antisociale e illiberale, sostenuta dall’intero arco dei partiti presenti in Parlamento, attivamente impegnati a condividerne le scelte vistosamente anticostituzionali.
Non pare dubbio, quindi, che sia auspicabile un cambiamento radicale degli assetti politici esistenti e anche un ricambio dell’intera classe dirigente poiché, a mio parere, a questo punto ci ha portato il governo della polis a sesso unico.
In molte ci siamo interrogate sulla qualità del cambiamento e, in particolare, ci siamo chieste se la soluzione sia la cosiddetta femminilizzazione della sfera pubblica, cioè delle strutture decisionali della polis.
Alcune (o molte) propendono per questa soluzione, la maggior parte di noi, però, la considera un’ipotesi di per sé largamente insufficiente.
Vorrei subito chiarire che non ho cambiato idea: ho sostenuto e sostengo la rivendicazione del “50 e 50 ovunque si decide”, continuo a ritenerla una misura di adempimento costituzionale che non critico, in sé, ma mi ritengo libera di segnalarne i limiti.
Come è stato scritto nella lettera di invito al seminario che si terrà in ottobre a  Paestum, il protagonismo in prima persona di ogni donna è una molla dinamica cui non intendiamo rinunciare.
Occorre, però, interrogarne l’efficacia trasformativa dell’esistente cominciando col tenere ferme le acquisizioni del femminismo.
Infatti, il femminismo può avvalersi di una elaborazione in autonomia capace di ripensare concetti quali genere, democrazia partecipata, soggetto politico e, in particolare, è in grado di esercitare una critica trasformativa sull’idea di un soggetto politico omogeneo di rappresentanza  e di delega.
Il pensiero critico che ci deriva dalla pratica politica dell’autocoscienza e del partire da sé è uno strumento che va messo alla prova nell’impatto con le istituzioni che richiedono modificazioni profonde.
Infatti, è vero che non può interessarci guadagnare posti migliori su una nave che affonda.
I due mondi contrapposti -quello dell’amore e del lavoro, degli affetti e delle leggi, della biologia e della storia, delle donne e degli uomini (Lea Melandri)- vanno disarticolati, modificati e ricomposti in una diversa armonia.
Secondo me, è bene iniziare esaminando le pratiche del dominio patriarcale che riscuotono un consenso almeno parziale da parte di chi vi è soggetto, gli esseri umani di sesso femminile.
Forse la principale fra queste pratiche, troppo poco contrastate, consiste nell’oscurare il ruolo dell’altra da sé in una narrazione dell’esistente tutta incentrata su di una storia a sesso unico, narcisistica e piena di falsità, che ha propiziato l’acquisizione del potere di una classe dirigente esclusivamente maschile avvantaggiata dalla divisione sessuale fra spazio privato e spazio pubblico. La ben nota divisione dei ruoli.
A proposito di ruoli, mi pare esista un doppio ordine di problemi.
Uno consiste nella passione femminile, apparentemente assai diffusa, per la cura degli altri, che da qualche tempo si espande, in modo riconoscibile, verso il corpo d’impresa, verso la politica, persino verso una ipotetica cura del mondo.
Si tratterebbe secondo alcune di una esplicitazione del desiderio di buona vita, secondo altre di una manifestazione di potere sotterraneo sugli altri cui sarebbe difficile rinunciare. O forse di entrambe le cose contemporaneamente.
A me pare che, per quanto potente sia questo potere, la storia dimostri che esso non serve a propiziare la buona vita, né a spezzare l’ordine simbolico androcentrico, poichè fa da supporto alla complementarietà escludente e appiana quasi ogni conflitto, nel privato come nel pubblico.
L’altro problema è, appunto, la rivendicazione maschile dell’esclusiva nella appropriazione di ogni spazio pubblico.
La manifestazione di una sorta di individualismo collettivo che si basa sul principio “the winners take all” (i vincenti prendono tutto), un principio che produce inadeguatezza e infelicità, pare per gli stessi vincitori.
Inoltre, la polis a sesso unico ha avuto come esito prevedibile l’occupazione delle istituzioni (non più rappresentative) ad opera di apparati a leader unico, quindi la gestione a uno (o a pochi, rigorosamente maschi) delle esistenze di milioni di individui, soggetti a decisioni altrui, prese senza la loro, ormai superflua, partecipazione.
Questo è a mio parere il dato che si pone all’origine del male e misconoscerlo rende impossibile escogitare un percorso capace di farci uscire da queste secche.
 Un percorso che consiste non solo nella opportuna modificazione del quadro legislativo, culturale e simbolico, certamente necessaria, ma consiste anche e soprattutto nell’apprezzamento della pratica politica femminista, che ha rivolto dalla soglia lo sguardo più critico sull’esistente, che si è esercitata e ha prodotto pensiero e azione sui temi più importanti all’ordine del giorno come la qualità del lavoro e uno stile di vita ecologicamente orientato.
Quindi, è necessaria non solo la presenza paritaria dei due sessi nei luoghi della decisione politica, economica, culturale, in attuazione dei precetti costituzionali; è necessaria anche la presa in carico della qualità  soggettiva e della pratica politica da cui ciascuno/a parla.

 

Intervento al seminario annuale del Forum delle donne di PRC

11-9- 2012